venerdì 23 dicembre 2011

Al di là del mare....

Vedo il sole splendere forte, alto nel cielo, e la luce dei suoi raggi si riflettersi sul pelo dell’ acqua, tanto da accecare la vista di quelle piccole figure accatastate l’ una sull’ altra. La piccola barca, di un arancione ormai invecchiato, sporca, arrugginita e ormai consunta, viaggia ad una velocità che nessuno, guardandola, avrebbe potuto attribuirle. Samir, oramai al timone da più di diciotto ore, la sta spingendo al massimo. E’ molto stanco, ma anche piacevolmente impressionato dalla bellezza del paesaggio marino. Ogni tanto scorge, addirittura, delfini dal dorso grigio giocare festosamente nella scia della barca.
La prua si infrange contro le onde, trasformando l’ azzurra acqua del mare in una densa schiuma, facendo borbottare a fatica il motore diesel da  duecentocinquanta cavalli, un rumore che a orecchi più esperti sarebbe suonato preoccupante.
Samir, invece, esperto non lo è affatto,  ha accettato quel lavoro solo per i 2.500 euro promessigli  quando si era recato al mercato della sua città, Abusalim, un piccolo sobborgo vicino  Tripoli, in Libia.
Gli si erano avvicinati in modo discreto, ma dovevano conoscere molto bene le sue abitudini, visto che erano entrati nel caffè al centro del mercato, dove era solito fermarsi  a gustare il succo di datteri da lui tanto amato. Un caffè di quelli che non consiglieresti a nessuno: sgangherato, senza insegna,  dove, se non fossi stato conosciuto dagli avventori  rischiavi di essere derubato senza neppure accorgertene. Il pavimento era lercio e un unico ventilatore cercava di sanare l’ aria asfissiante e carica di cattivi odori.
“Erano bianchi, europei di sicuro” continua a borbottare Samir, mentre spinge la barca in quella folle corsa.
“Ti diamo 1000 euro ora e 1500 quando arrivi” gli dicono.
Senza presentarsi e facendo ben intendere che non avrebbero dato nessuna spiegazione ulteriore a quella che gli  stavano per dare, dissero: “Dobbiamo portare un carico dall’ altro lato del mare e ci serve un uomo che non ha nulla da perdere! Sappiamo bene che non hai nessun affetto a questo mondo! E sappiamo bene che la Libia non è più la terra in cui vuoi vivere!!!”. Samir  aveva capito di che “carico” si trattava e  cosa intendevano i due uomini  con “dall’ altro lato del mare”.  Accettò subito: era stanco di vivere nel terrore di una guerra civile che non sentiva sua – “Se cade questo Rais,  di sicuro ne arriverà un altro!” si diceva.- Trasportare un gruppo di sconosciuti per assicurarsi un futuro migliore, in Europa, non lo disgustava così tanto. Ai due loschi figuri, vestiti  semplicemente in mimetica, sembrava non importare poi tanto il fatto che non avesse mai usato una barca: il sistema GPS avrebbe fatto da guida e lui avrebbe solo dovuto spingere i motori al massimo.
Gli fu detto di farsi trovare, la settimana successiva, sulla spiaggia municipale alle quattro del mattino. Non ci sarebbero stati controlli di nessun genere, poiché le forze armate erano troppo impegnate a contenere i ribelli per le vie della città.
La settimana di attesa fu vissuta dal ragazzo come tutte le altre settimane della sua giovane vita: giocando a carte con gli amici, pregando quando era dovere farlo, mettendo in ordine le poche cose che possedeva nella povera capanna, lasciatagli dagli zii in fuga dalla Rivoluzione.
Samir, ansioso di scappare dalla sua terra, martoriata da una guerra civile che forse nessuno aveva voluto, la mattina dell’ appuntamento, alle 3:00, già era seduto sulla riva del mare.
Il cielo era scuro. Il mare era nero, sembrava fatto di quel petrolio che, nei sospetti del giovane, aveva fatto scoppiare l’ insensata rivolta. Il rumore minaccioso delle onde non lo impensieriva, perché il suo unico desiderio era fuggire e, magari se ce l’ avesse fatta, avere una possibilità di vita, in un luogo migliore.
Da lontano, di tanto in tanto, Samir udiva il rumore delle esplosioni… se si fosse voltato.. avrebbe visto la città illuminata come fosse giorno. Ma non aveva nessuna intenzione di voltarsi: conosceva già quel triste spettacolo di fuochi assassini!!!

Quella visione mostruosa fatta di morte, speranza e sangue aveva ingannato anche me, attento scrittore.
Ora viaggio tra immaginazione e realtà… contagiato, ho descritto le scene dell’  incubo risolutore del povero Samir.
Guardo fisso la legna che arde nel camino e tra le braci, lontano, vedo una sagoma umana. Poi il nulla.
“Meglio affrontare la morte, che distribuire morte” mi disse.
Il suo  corpo, tra esplosioni, colpi di mitra e urla, giace, oramai senza vita, ai margini della strada.


venerdì 30 settembre 2011

Ritmo Nictemerale

Il ritmo nictemerale è il ritmo che permette all’ essere umano e a tutti gli altri esseri viventi di regolare l’ alternanza delle funzioni biologiche durante l’ arco delle 24 ore, in particolare la regolazione del sonno e della veglia.
 Questa specie di orologio interno è un ritmo tarato sulla durata del giorno terrestre e sulle nostre abitudini come specie nel rapporto notte =buio = sonno,  giorno = luce = veglia.
Molti di noi dormono per circa 8 ore, il che significa che passiamo circa un terzo della nostra vita dormendo, in parte sognando. Se cerchiamo di evitare di dormire per impiegare questo tempo prezioso in altre attività, quali tirar tardi a una festa o passare la notte sui libri per preparare un esame, il nostro corpo e il nostro cervello subito ci ammoniscono che non dovremmo. Possiamo farcela per un po’ ma non troppo a lungo. Il ciclo sonno/veglia è una delle tante attività ritmiche del corpo e del cervello ed è un ritmo endogeno che diviene gradualmente parte del ritmo nictemerale nei primi anni di vita ed importante in tutto l’arco della vita. Questo ritmo è nella natura e nell’istinto e, quindi, tende a persistere anche in assenza dello stimolo esterno dell’alternanza di giorno e notte: ad esempio nei paesi scandinavi si va a dormire anche nella stagione estiva in cui non c’è mai una vera e propria notte fonda.
E’ dimostrato, però, che il ritmo nictemerale non è rigido ed è in qualche modo “modificabile”: le funzioni biologiche giornaliere, lo stesso metabolismo, star svegli o dormire sono quindi abitudini consolidate dall’ uomo durate i milioni di anni della sua evoluzione e che vengono “assorbite”, sempre per abitudine, nei primi mesi di vita dell’ essere umano. Il bambino appena nato, infatti, può essere del tutto indifferente al ritmo di giorno e notte ed avere un suo ritmo personale, magari commisurato sulle 3 o 4 ore piuttosto che sulle 24! Il neonato regola i suoi cicli vitali sul ritmo della sua fame, ignorando del tutto quello del giorno e della notte.
Altra prova che il ritmo nictemerale umano è dettato da una questione convenzionale è il jet-lag, in cui la rilevante differenza di orario tra il luogo di partenza e quello di arrivo in un lungo viaggio aereo mette a dura prova, anche in un adulto sano, il ritmo stesso. O la vita degli abitanti del deserto, i Tuaregh, che viaggiano di notte e vivono di giorno. O la vita di tanti lavoratori notturni, dai metronotte ai giornalai, dai gestori di discoteche ai fornai, che hanno in qualche modo “ modificato” il loro ritmo vitale ( c’ è chi può riuscire dormire anche solo 4 ore a notte) in funzione del proprio stile di vita.
Forse, però, nel caso dell’ uomo Occidentale, dovremmo soprattutto chiederci che ruolo gioca la luce artificiale: ha consolidato le nostre abitudini di sonno/veglia o ci ha aiutato a modificare il nostro ritmo nictemerale?



giovedì 29 settembre 2011

VIlla San Limato

Nel periodo che segna la fine della Repubblica e l’ inizio dell’ età imperiale di Roma, sorgono su tutte le coste campane, le villae maritimae un tipo di abitazione dedicata principalmente al diletto e all’ otium nei mesi estivi. E’ soprattutto il litorale domitio a costellarsi di ville per la presenza di sorgenti naturali di acque termali. L’ amoenitas del territorio dice Strabone, diventa anzi il requisito fondamentale di queste ville.
L’ originario nucleo di queste ville, costituito da atrio e tablino, si dilata con la costruzione, in tempi successivi, di nuovi ambienti, decorati sfarzosamente di statue, mosaici e pitture parietali.
Splendida tra tutte, è la Villa Limatola, costruita all’ inizio dell’ età imperiale, tra il  Comune di Mondragone e quello di Cellole.
Essa mostra le citate discontinuità architettoniche: le strutture superstiti sono incorporate, oggi, in masseria settecentesca mentre la maggior parte degli ambienti visibili, il frigidarium ( e lo splendido mosaico, con rappresentazione di animali divini, che lo ricopre), il calidarium ed il tiepidarium, costruiti in reticolati e mattoni e coperti da volte a botte. Su di loro poggiano gli ambienti residenziali.
L’ esame delle strutture a noi arrivate, evidenziano due fasi costruttive: l’ impianto originario è del I secolo, mentre la fase di ristrutturazione e d’ ampiamento si data alla fine del II secolo.
La tecnica di costruzione della villa in San Limato è di modello: la planimetria risponde alle esigenze non solo di piacere e ozio, ma anche a quelle di relazioni sociali, politiche, religiose. La disposizione dei nuclei edilizi non è casuale ma risponde alle leggi del miglior modo di fruizione del passaggio: la casa signorile è sempre meglio esposta al panorama, l’ asimmetria delle superfici non è dovuta alla mancanza di spazio ma bensì ad un’ innovazione tecnica che mette in risalto i profili curvi di absidi ed esedri aperti verso il mare.

La lussuosa residenza romana, attribuita a Gaio Ofonio Tigellino, , oggetto di riqualificazione nel 2008, è  purtroppo oggi presa di mira dai vandali.


Probabilmente il feroce funzionario dell’imperatore romano Nerone non avrebbe mai immaginato che, a distanza di secoli, gli abitanti nativi di quei luoghi così stupendi da essere vanto dell’ Impero, potessero guadagnarsi, al pari dell'antico Imperatore romano, la fama di distruttori.

mercoledì 28 settembre 2011

MUSEO CIVICO ARCHEOLOGICO “BIAGIO GRECO”

Il museo civico “Biagio Greco” di Mondragone, sito al civico numero 2 di via Genova,  è inaugurato nell’ ottobre del 2000, quando l’ allora sindaco Ugo Alfredo Conte apre il primo percorso museale, articolato su tre sale espositive, all’interno di uno stabile che ospita anche la Biblioteca Comunale.
Oggi il museo civico di Mondragone è un’ istituzione permanente senza scopo di lucro, al servizio della società e del suo sviluppo e, grazie alla guida illuminata del suo Direttore, il Dott.  Crimaco, e alla competenza e all’ abnegazione del suo staff archeologico, è diventato il baricentro culturale di tutta la Riviera Domitia.
Il sito è stato riconosciuto museo ad interesse regionale e rappresenta un' importante fonte per la comunità e per i giovani, per la conoscenza della storia del proprio territorio ed è uno strumento indispensabile per la valorizzazione turistica e culturale del territorio stesso.
I reperti storici rinvenuti, a seguito di due campagne di scavo archeologico finanziate a partire dal 2001 dal Comune di Mondragone, una sita in Grotta San Sebastiano di carattere preistorico e l’ altra sul sito medioevale della Rocca Montis Draconis, sono allestiti ed esposti in quattro sale.  I materiali sono molti e variegati: oggetti funebri, vasellame, monili, medagliere con 200 monete circa, corredi, lame e bulini, tutto ciò ad indicare la ricchezza, conservata in secoli di storia, della città marittima. In particolare, da ammirare l’esemplare unico della statua di Apollo Musagete del II secolo.
L’ importanza storica di questi reperti è immensa: Mondragone recupera un passato millenario, dimenticato e sconosciuto. La storia del territorio non è più solo Ager Sinuessano, legato al periodo tardo-repubblicano di Roma, ma affonda le sue radici nella notte dei tempi e racconta la storia di un popolo indigeno fiero e potente.
Oggi il museo “Biagio Greco”, che deve il suo nome dallo studioso locale che tra i primi ha propugnato, negli anni ’20, la necessità di tutelare e promuovere il ricchissimo patrimonio archeologico locale, ospita: una sala dedicata alla preistoria, al periodo Aurignazio e ai primi gruppi etnici che abitarono la zona;  una sala dove sono  esposti reperti d’età protostorica e arcaica appartenenti alla popolazione Ausone e, a sinistra dello stesso piano, materiali del periodo romano legati alla storia di Sinuessa e dell’agro Falerno; infine le due sale poste al secondo piano ospitano quanto rinvenuto durante gli scavi e le ricognizioni del villaggio medievale di Montis Dragonis.

Il Museo Civico Archeologico “Biagio Greco” è un  emozionante viaggio indietro nel tempo, che ci fa Assaporare la vita di un territorio ancora da scoprire.

venerdì 23 settembre 2011

S. MARIA DEL GIGLIO

La chiesetta come un piccolo e prezioso gioiello attira subito l’ attenzione del passante, anche il più distratto . A pochissima distanza da piazza Umberto, là dove il corso si interseca con via Genova, c’ è la piccola, deliziosa ed accogliente chiesetta di Santa Maria del Giglio, quasi a guardia dell’ antica ed oramai impalpabile, omonima porta che consentiva il collegamento tra la cittadella rinascimentale e l’ antico borgo di Sant’ Angelo.
Il nome è dovuto alla grandissima quantità di gigli presenti nella zona nel passato: anche l’ attuale corso Umberto I, tutt’ oggi, è ricordato come “ la profumatissima via dei gigli”.
Edificata nel XVII secolo,  ha pianta rettangolare a navata unica, con due ingressi: uno in via Genova, l’ altro, oggi murato per esigenze di viabilità, sul corso Umberto.
La chiesetta, posta proprio di fronte al Museo Civico di Mondragone (diretto dal Dott. Luigi Crimaco), è letteralmente eclissata dai molto più imponenti edifici circostanti. Non tutti sanno, però, che al suo interno sono racchiuse opere d’ arte di notevole interesse.
Il prezioso affresco raffigurante la Vergine in preghiera col giglio tra le mani ad esempio: l’ opera è del pittore aversano Paolo Martorano. Offuscata dal tempo, risale agli anni ’30 del XX secolo ma è venuta alla luce solo nel 1982.
Sulla parete di fondo, invece, una nicchia soprastante l’ altare protegge una preziosa statua dell’ addolorata con vesti in tessuto nero e decorate con oro zecchino. La scultura risale agli anni ’50: all’ epoca, nella zona del presbiterio, esistevano stalli in legno per i componenti della confraternita di S.Maria del Giglio, approvata addirittura nel 1778 da re Ferdinando di borbone e avente come emblema tre rose.
La facciata della chiesetta è molto semplice: un piccolo ingresso, sormontato da una bifora e poi da un timpano triangolare.
Il piccolo campanile, anch’ esso a pianta quadrangolare, con una copertura piramidale rivestita di maioliche policrome, si innalza alle spalle dell’ edificio, su residui di mura rinascimentali.
Nonostante la sua disarmante semplicità esteriore, la Chiesetta del Giglio è di sicuro uno degli edifici “più spirituali” di Mondragone poiché spontaneamente invita al raccoglimento e alla riflessione interiore.
 Riesce a conservare intatta tutta la bellezza delle sue origini: nel periodo pasquale, infatti, la chiesetta accoglie la scultura del “Cristo Morto” e il gruppo scultorio delle “Tre Marie”, provenienti ambedue da altre chiese mondragonesi. Suggestive e commoventi processioni, di giovani ed anziani (soprattutto pescatori), accompagnano ancora oggi queste sculture nella loro temporanea dimora del Giglio. 

IL PALAZZO DUCALE

Il Palazzo Ducale si erge maestoso ed elegante alla confluenza di quelle che oggi sono Corso umberto I, via Duca degli Abruzzi e via XI febbraio, a poca distanza dalla chiesa di Sant’ Angelo e dal borgo omonimo che costituisce la porta antica di Mondragone.
Visibile ampiamente da lontano da tre lati, l’ ultimo verso la parte orientale ancora campagna, come la Reggia di Caserta.
Ed è proprio all’ opera più famosa del Vanvitelli che il Duca Domenico Grillo vuole ispirarsi per i lavori di ampliamento e ristrutturazione del già esistente “Palazzo Baronale”. Il nobile si rivolge persino allo stesso Vanvitelli ( in visita più volte nella città per la scelta del marmo da portare a Caserta), ma ottiene un netto rifiuto dall’ artista, in quanto già troppo impegnato dai lavori alla Reggia reale.
E’ possibile, però, che il Grillo riesce almeno in parte nel suo intento, ottenendo dal grande architetto un progetto che prevede l’ allargamento del portone d’ ingresso, la creazione di un secondo cortile e il rifacimento delle finestre.
Da quanto detto, è chiaro che la complessa struttura dell’ edificio non è un opera unitaria di una determinata epoca, bensì un susseguirsi di edifici, dal XIII al XIX secolo. Questa commistione costruttiva è ben visibile, sia per gli stili architettonici usati ( si passa dalle tipiche fortificazioni medioevali al tardo gotico catalano del XV secolo), sia per i materiali usati.
Il Palazzo ingloba, infatti, parte della murazione medioevale con la casa – torre, gli archi sulla sommità sorretti da beccatelli, le volte a crociera, gli archi a sesto acuto dei vari terranei, le monofore e le bifore. E, come abbiamo già accennato, la costruzione è ampliata, tra il XVIII e il XIX secolo, dai duca Grillo che estendono il già esistente Palazzo Baronale con un secondo cortile verso la parte orientale, ancora aperta campagna.
Alto 23 metri, su tre livelli, la struttura si estende per quasi 2800 metri e occupa una superficie complessiva di 5733 metri. La facciata principale presenta un basamento in mattoni (corrispondente al piano terra), su cui si erge il piano nobile, con alti finestroni con timpani curvi. Al centro insiste un portale in marmo locale che porta allo scalone, in posizione laterale ( similmente a quello della Reggia!), che porta agli appartamenti ducali e alle sale di rappresentanza. L’ androne d’ ingresso continua oltre la porta di chiusura, formando una galleria di passaggio per mezzi di trasporto e pedoni ( altra analogia con la Reggia vanvitelliana).
Altri ambienti degni di nota sono le due stanze a doppia altezza, quella che comunemente viene ritenuta la cappella del palazzo e il coronamento del vano scala all’ angolo sud- est.
Oggi giorno il Palazzo Ducale certamente non conserva più la bellezza che lo ha contraddistinto nel passato, con i suoi marmi, i suoi dipinti e stucchi pregiati. Esso, tuttavia, conserva ancora tutta la sua dignità e la sua fierezza: possiamo davvero dire che anche Mondragone ha la sua piccola, grande Reggia!

LA VENERE SINUESSANA

Una dea o donna bellissima esce dall’ acqua con passo leggiadro ed elegante, quasi regale: solo un velo ne copre il corpo nudo, morbido e sensuale. 
Più di duemila anni ci separano dalla scultura,  eppure l’ immagine marmorea è potentemente viva e ammaliante. Qual’ è il suo nome? Da dove viene? In quali acque rinfresca le candide membra? Chi l’ ha scolpita? Chi raffigura?
Queste e tante altre domande agitano la mente, mai paga di conoscenza e sempre avida di mistero, la quale, insoddisfatta delle risposte date, cerca per sé e da sé verità fantasiose davanti al simbolo più illustre della città di Mondragone.  Ritrovata acefala e senza braccia, un freddo gennaio di cento anni fa, in località Incaldana, dal sig. Leopoldo Schiappa, questa splendida scultura è la testimonianza più viva del lusso e dell’ agiatezza in cui gli abitanti di Sinuessa  vivono durante il periodo pre-imperiale.
Erroneamente attribuita, dall’ illustre professore Spinazzola, che per primo ne ricompose i pezzi mutili allo scultore greco del IV sec. a.C., Prassitele, essa adorna la villa di Marco Tullio Cicerone, che predilige Sinuessa per il clima mite e le trasparenza delle acque ed in particolare a Sinuessa stabilisce la tranquillità del suo ozio,  come fanno i più potenti personaggi della Roma tardorepubblicana.
La statua è unica nel suo genere: a differenza di molte altre Veneri, essa si ispira a concetti estetici in parte contrastanti con i canoni classici. L’ artista greco non conosce il dramma del pensiero filosofico, dimidiato tra reale ed ideale: con la mente contempla l’ immobile perfezione dell’ Idea e con lo scalpello crea nel marmo irreali armonie di linee e di forme che non conoscono la prepotenza delle passioni e la violenza della carne. Invece la Venere Sinuessana   emana il tepore della carne viva e sensuale: il marmo asseconda la pienezza della forma anatomica, vellutata di morbidezza adiposa che dappertutto la fascia con la delicatezza di tocco di un grande artista, degno di essere avvicinato a Prassitele e di esserne stimato l’ allievo prediletto.
Forse il creatore della Venere Sinuessana si colloca nel periodo storico di transizione tra il Classicismo e l’ Ellenismo che introduce nell’ arte inquietudine, dinamismo e realismo.                           

Il Palazzo Tarcagnota

Il Palazzo Tarcagnota è il tipico edificio padronale dei centri cittadini meridionali: subito mostra del luogo la famiglia più importante.
Sorge  nel cuore di Mondragone, in via Vittorio Emanuele.
E’ un edificio imponente: presenta sul fronte strada un prospetto di circa 60 metri di lunghezza, per un’ altezza di circa 15 metri. E’ largo 30 metri quadri e almeno il doppio di tale area è occupata dal giardino interno, con annessa la cascina del giardiniere.
Ed è proprio il giardino, particolarmente curato, il cuore della vita quotidiana nel palazzo: ci piace immaginare signori e dame che prendono il fresco sotto i porticati di uva e di rose nei periodi di calura estiva o che, nelle belle e fredde giornate d’ inverno, passano l’ ozio parlando piacevolmente tra danze e conviti o passeggiando tra i viali verdeggianti.
Dalla strada si accede a palazzo mediante due portoni, oltre ad un accesso secondario posto vicino al sagrato della Basilica Minore di Maria SS. Incaldana.
L’ ingresso più importante presenta un portale (oggi trafugato) al cui centro è posto lo stemma nobiliare, il quale raffigura una figura femminile in abiti ancillari che indossa  un elmo e che regge tra le mani una frusta ed un animale simile ad un serpente, tra due cani in corsa.
Nella parte inferiore dello stemma dello stemma raffigura un cane tra elementi floreali. Tali figure sonno effigiate su di uno scudo poggiato su un drappo nappato e sormontato da una corona gigliata.
Lo stemma e lo scudo rivelano l’ origine regale dei Tarcagnota che, nel libro “Città di Mondragone” del reverendo Giuseppe Aversario”, provengono dalla Morea e sono imparentati con i Paleologi, ultimi imperatori bizantini.
La presenza delle armi e dei cani nello stemma indica anche le principali attività delle famiglie nobiliari: la guerra e la caccia.
Soprattutto la caccia nei luoghi boschivi delle plaghe costiere di Mondragone, a quei tempi malsane e paludose, o sui pendii collinari, costituisce il nobile ozio dei Tarcagnota.
Tramite una scala in marmo si accede all’ appartamento nobiliare, attualmente fortemente rimaneggiato.
Il secondo accesso, meno pregiato, di forma rettangolare, accede ad una corte chiusa, in cui al piano terra sono inseriti i servizi essenziali. Tramite una stretta scala poi si accede alle stanze della servitù, poste al secondo livello, occupato in gran parte da un ampio terrazzo a forma di U.
Il palazzetto di tipologia  settecentesca, ingloba alcune costruzioni risalenti al periodo catalano. La fortuna del palazzo è strettamente connessa al destino al destino della famiglia Tarcagnota. Fiorente durante il regno borbonici e napoleonico ( Domenico Tarcagnota governa Mondragone in qualità di “Regio Intendente delle Reali Riserve”), incomincia la decadenza con l’ Unità d’ Italia, anche  se  mantiene il suo predominio locale: si ricorda un Tarcagnota come sindaco nel periodo 1895 – 1909.
Poi il ramo mondragonese della famiglia si estingue, il patrimonio  ereditato dai rami collaterali dei discendenti è quasi totalmente alienato. Anche il palazzo di famiglia decade: oggi è in condizioni pessime di conservazione e frazionato in singole unità abitative.
Il comune di Mondragone, per fortuna, ha stabilito un piano di recupero, così che non si perda un dei più gloriosi monumenti della città.

LA ROCCA DI MONDRAGONE




Una fortezza imponente e inespugnabile! Questa è la Rocca di Mondragone.
Essa, che dall’ alto sovrasta l’intero Ager Falernus, è sita sulla parete più impervia e scoscesa del Monte Petrino.
Edificata, probabilmente, dai Longobardi, per fronteggiare la minaccia rappresentata dai Saraceni che, nel Basso Medioevo imperversano su  tutte  le coste della penisola.
L’ edificazione di matrice longobarda è avvalorata dalle caratteristiche della fortezza stessa, tipico esempio di tecnica difensiva barbara: anche se, nel corso dei secoli la fisionomia della Rocca è mutata a seconda delle necessità e della tecnologia del dominatore di turno, essa ha conservato le sue mura, ciclopiche, rozze e ad esclusivo uso militare. Inoltre le fondamenta, costruite partendo dalla nuda roccia, seguono la morfologia del terreno impervio del Monte Petrino.
Anche se oggigiorno non riusciamo più a cogliere l’ originale aspetto di questa splendida fortezza, le poche strutture che si sono conservate fino ai nostri giorni danno l’ idea di ciò doveva rappresentare per tutto l’ Ager falernus: un punto di riferimento importantissimo per tutto il paesaggio circostante, nonché l’ ultimo baluardo contro i terribili invasori  mediorientali.
In essa possono ancora distinguere una parte centrale, protetta da mura e contrafforti, in cui spicca il “Castello”, residenza del feudatario o del castellano, una struttura massiccia a forma di “L” irregolare e si sviluppa su due o tre livelli, a seconda del andamento del terreno montuoso. Esso è stato realizzato essenzialmente con pietre calcaree e malta, ma anche altri materiali (provenienti dallo spoglio di edifici romani), direttamente edificato sulla roccia viva, al punto che le fondamenta seguono perfettamente le irregolarità del terreno.
Inoltre si può distinguere un borgo abitato, compreso di una chiesa, una cripta e varie cisterne protetto dalle vare cinte murarie che avvolgono il complesso a nord a ovest e ad est del monte. Lungo la falda su del Petrino non vi sono mura, in quanto la pendenza del terreno rappresenta già una difesa naturale efficacissima.
 La Rocca di Mondragone, allo stato attuale, è ridotta a dei ruderi che non rispecchiano l’ antico splendore e possenza e, col passare del tempo, non resterà più traccia di essa. Malgrado ciò, la Rocca resta il simbolo del glorioso passato di un’ intera città e, dall’ alto degli aspri pendii del Petrino, testimone dei valori che comportano essere un cittadino di Mondragone.

Mondragone


Una gemma di incomparabile bellezza incastonata tra la foce del fiume Volturno e il Monte Massico, adagiata su una delle costiere più affascinanti del Mar Tirreno: questa è Mondragone.
Le ataviche origini di questa splendida cittadina costiera della Campania sono riconducibili alla colonia romana di Sinuessa, probabilmente fondata sulle rovine della greca Sinope.
“Mollis”, così Marziale chiama la colonia per la sua fama di cittadina voluttuosa e raffinata. Per il suo mare, le sue terme e il suo vino, il Falerno, che copiosamente allieta i banchetti dei ricchi romani in tutto l’ Impero, i grandi poeti e scrittori latini come Ovidio, Turpilio o il già citato Marziale, cantano questo luogo meraviglioso e senza tempo.
Personaggi ricchi, famosi e potenti dell’ Urbe  come Cicerone, Narciso, il liberto potentissimo dell’ Imperatore Claudio, Tigellino, prefetto del pretorio di Nerone, incantati dal fascino del paesaggio, dalla mitezza del clima e dai piaceri della vita trascorrono l’ ozio  in quel di Sinuessa e lì, a pochi metri dalla costa bianchissima e limpidissima, costruiscono le loro lussuose ville.
La città si biforca con il suo abitato, tra due delle maggiori strade consiliari, l’ Appia e la Domitiana, e ad esse è strettamente legato il suo destino: popolosa, ricca, fiorente finché l’ impero Romano domina l’ Europa, semideserta e in decadenza in seguito al suo declino.
Sinuessa, infatti, raggiunge l’ apice della bellezza e della fama tra il I sec. a.C. ed il II sec. dopodiché il suo splendore comincia a scemare, secolo dopo secolo. Un inesorabile declino che segue parallelamente quello dell’ Impero Romano.
Alla caduta dell’ Occidente, gli abitanti si trovano esposti alle incursioni sia dei barbari del nord sia dei pirati saraceni del sud, ormai liberi da ogni controllo che possa fermare le loro devastazioni.
I sopravvissuti alla scomparsa dell’ autorità imperiale trovano scampo sul monte che sovrasta la loro terra, dando origine così alla Rocca di Mondragone, che deve il suo nome a Dragone, il principe longobardo signore di essa, e alla sua figlia Rocca (la leggenda riporta l’ etimologia del nome alla presenza di un terribile drago: Mons Draconis).
Solo sette secoli  più tardi, con il dominio angioino nel sud della penisola,  finalmente gli abitanti della Rocca ritornano a vivere sulla loro amata costa, formando il nucleo originario della Terra di Mondragone, con gli abitati interni di S.Angelo e S.Nicola.
La storia dell’ odierna Mondragone passa per vicissitudini di potenti, popoli, leggende, lotte. I mondragonesi, temprati da secoli e secoli di storia gloriosa, agevolati da un clima e da una posizione geografica invidiabile e forti di un solido patrimonio agricolo, ittico, turistico, termale e soprattutto culturale, hanno dato vita a una delle realtà più felici del basso Tirreno: come scriveva lo storico  Fausto Sementini: “…la nostra patria può chiamarsi una felicissima e deliziosa terra, che porta i suoi vanti verso la più remota antichità….”

LA VITA VERSO L ‘ ACQUA


La vita viene dall’ acqua!
Quest’ affascinante verità  è oggi uno dei pilastri portanti della biologia moderna.
Dai primi organismi unicellulari ai pesci, dagli anfibi ai rettili marini, fino ai mammiferi acquatici, la vita in miliardi di anni non ha mai abbandonato il suo elemento originario. La genesi acquatica anzi, anche negli esseri viventi che hanno scelto la terraferma  ha lasciato un segno indelebile.
In particolar modo l’ uomo ( e in generale tutti i mammiferi placentati) ha conservato  trattiti specifici di tutta la sua evoluzione, marina e non:  le ultime vertebre della zona lombare, ad esempio, sono riconducibili ad un’ arcaica coda di cui l’ essere umano, in milioni di anni, ha “imparato” a fare a meno. Inoltre la parte più interna e antica del nostro cervello, quella che ha come principale funzione  di gestire le funzioni fisiologiche,  viene chiamata dagli studiosi “cervello rettiliano” perché ha le stesse caratteristiche del cervello dei rettili.
Ma ciò che davvero dimostra  che il nostro retaggio di esseri provenienti dall’ acqua non è stato del tutto perduto sono i momenti cruciali che preservano la continuazione della nostra specie: la gestazione, il parto e la nascita.
Come nei pesci, la femmina dell’ uomo “custodisce” il feto in uovo all’ interno del suo stesso corpo, il sacco vitellino. Questo, durante tutto il periodo della gestazione, assolve alle funzioni nutrizionali nei primi stadi di sviluppo dell'organismo.
Anche il parto e la nascita ci riconducono alla genesi acquatica dell’ uomo: è dimostrato che partorendo in acqua  il dolore si attenua e i tempi di travaglio si accorciano. L’acqua infatti agisce a vari livelli: facilita il rilassamento della muscolatura e aumenta la produzione di endorfine, che sono analgesici naturali. Infatti, tramite l’acqua la donna si isola con maggiore facilità dal mondo esterno, entra in contatto con la sua parte più profonda, lasciando agire l’ipofisi, la parte più antica del cervello, che è responsabile delle contrazioni uterine.
Il neonato, poi, nei primi 6 mesi di vita, è in grado di regolare la propria funzione respiratoria sott’ acqua, in parte perché memore del liquido amniotico che riempiva e proteggeva la sua sacca embrionale e in parte perché il nascituro, non consapevolmente, conserva le ancestrali caratteristiche degli esseri acquatici.
Tutto ciò ci fa capire la profonda connessione che c’ è tra l’ uomo e gli altri esseri viventi di questo pianeta: una storia evolutiva lunga miliardi di anni, che ha inizio nell’ acqua….e continuerà, forse....di nuovo, nell’ acqua.

LA CLASSIFICAZIONE NATURALE


La classificazione del regno animale , e degli esseri viventi in generale, da parte dei biologi, sin dall’ antichità  riunisce le varie specie in base a caratteristiche morfologiche comuni: tale sistema si basava sulle somiglianze esteriori più evidenti degli organismi e rimase invariato per molto tempo.
Solo nel XVIII secolo, infatti, la classificazione linneana riesce a dare un ordine scientifico per la catalogazione degli esseri viventi. Si tratta di una modalità più precisa rispetto a quella aristotelica, fino ad allora usata, molto grossolana e fondata soprattutto su congetture.
La ripartizione del naturalista svedese Linneo è basata su categorie: regno, classe, ordine, famiglia, genere, specie, ed è tuttora utilizzata dai biologi. Questi, però, hanno associato, da Darwin in poi, alle caratteristiche anatomiche comuni delle specie una comune discendenza evolutiva.
Nonostante l’ estrema scientificità del sistema di catalogazione adottato, persistono problemi di fondo che la scienza moderna ancora non è riuscita a risolvere.
Ad esempio, organismi meno complessi e dalle caratteristiche cellulari peculiari come alghe, batteri e virus risultano ancora di difficile collocazione, sempre in bilico tra i vari regni naturali.
Tale suddivisione, inoltre, si basa sulle somiglianze comportamentali degli esseri viventi presi in esame. La classe dei mammiferi( a cui apparteniamo anche noi esseri umani), comprende forme di vita molto varie ma accomunate da caratteristiche comuni: la presenza di peli, il parto  di esseri già sviluppati(sono vivipari), l’ allattamento  e la cura della loro prole che nella maggior parte dei casi è molto più indifesa al momento della nascita, rispetto ai cuccioli delle altri classi animali.
 Queste caratteristiche peculiari per definire i mammiferi, o mammalia, andrebbero almeno in parte riviste : come ben sappiamo, le balene ,o i delfini, non hanno peli sulla loro cute, eppure sono mammiferi in quanto allattano i loro cuccioli.
Allo stesso modo non è una discriminante sufficiente esser vivipari in quanto  possiamo considerare la gravidanza,  il periodo di sviluppo intrauterino fino al parto un uovo covato in situ. Dobbiamo considerare, poi, la significativa eccezione dei Monotremi, come l’ ornitorinco e l’ echidna, che sono ovipari, ma allattano i loro piccoli.
 Altro argomento di dibattito risulta essere la cura della prole da parte di uno dei due genitori  fino a quando questa non è in grado di nutrirsi di cibo solido in modo autonomo. L’ immaginario collettivo, infatti, vede il genitore di sesso femminile dedito all’ accudimento dei nascituri, umanizzando il comportamento animale, ma nella maggior parte dei casi, è il maschio a farsi carico della protezione e della crescita dei piccoli: le femmine, infatti, sono spesso occupate nella caccia, intente a procurare nutrimento per il branco.
Possiamo dire che, non solo tra i mammiferi, ma in tutto il regno animale, l’ uomo è l’ unica specie che ha sovvertito l’ ordine dei ruoli  genitoriali in un gruppo famiglia/branco?
Di sicuro dobbiamo approfondire le nostre conoscenze  e rivedere molte delle nostre convinzioni u un mondo che non è ancora del tutto svelato. Forse, una volta recuperato il nostro “retaggio animale”, riusciremo finalmente a tornare in armonia con la natura e con noi stessi.

venerdì 29 luglio 2011

Arte ed Ambiente

L’ arte è la forma sublime in cui l’ uomo esprime il suo mondo interiore, la visione del mondo esterno filtrata attraverso la sua particolarissima sensibilità ed esperienza.

L’ ambiente è quella parte dell’ Universo con cui direttamente ognuno di noi è in relazione.

La sintesi di arte ed ambiente imprime nell’ opera finita la contemplazione delle forze di energia che dominano l’ Universo e diventa comunicazione di verità, mediazione e riconciliazione tra natura ed uomo.
Quest’ unione realizza i valori caratteristici di un intera cultura, costruisce la storia di un popolo, perciò possiamo ben affermare:

“Senza passato non c’è presente…senza presente non c’è futuro”.

Tale sintesi trascende i limiti del tempo e dello spazio, squarciando il velo dell’ impotenza umana, s’ impregna di valori universali ed imperituri: in essa, segno dopo segno, passo dopo passo, si registra il cammino dell’ uomo nella storia.

martedì 26 luglio 2011

Occhi al cielo

La sfera celeste: l’ ispiratrice più affascinate per l’ uomo.

Civiltà tanto diverse tra loro quanto lontane hanno trovato “risposte” nell’ osservazione delle stelle: dall’ antica Cina agli imperi precolombiani del Centro America, dagli aborigeni dell’ Oceano Pacifico ai nativi americani, dagli Egiziani ai Babilonesi, fino al Nepal, dove una casta di sacerdoti-astronomi si affianca al potere governativo ufficiale.
L’ osservazione della volta celeste possiamo interpretarla come qualcosa di istintivo: i bambini, di qualsiasi luogo e di qualsiasi epoca, imparano a camminare, a parlare e a creare relazioni con il mondo esterno, più o meno tutti allo stesso modo e alla stessa età; così le civiltà, chi prima, chi poi, hanno sentito tutte questa incontenibile attrazione verso il cielo.

Il vero problema sorge quando vogliamo analizzare questa  “crescita” non più semplicemente caso per caso ma in modo globale, osservare come tutte le civiltà, nessuna esclusa, dopo aver guardato e studiato il cielo, abbia avvertito l’  impulso di  basare la propria conoscenza, la propria cultura e spesso addirittura le proprie scelte politiche sull’ osservazione delle stelle, spesso erigendo monumenti che ricalcano in modo perfetto la mappa della volta celeste.

Com’ è possibile, ad esempio, che le piramidi egizie della Valle di Giza venissero costruite  perfettamente allineate con la Cintura d’ Orione senza avere strumenti di alta tecnologia?

La risposta ad una simile domanda è, ormai, seppellita sotto millenni di storia e dietro questo quesito tanti altri si affacciano alla nostra mente.
Perché tutte le civiltà antiche, nonostante non avessero possibilità di contatto tra loro, sembrano avere tutte la medesima “matrice”?

Perché la piramide sembra sia la costruzione più distintiva dell’ umanità? Cosa nascondono le costruzioni piramidali, che siano quelle dei faraoni o le ziqqurat babilonesi o quelle azteche di Tenochtitlan?

Perché gli antichi popoli, dalla Cina all’ Egitto fino al  Sud-Est asiatico, conservano tutti il mito di una civiltà super avanzata ( Mu, Atlantide, Lemuria, Shangri-La…)scomparsa dopo un cataclisma di immani  proporzioni?

Forse a tutte queste domande e ad altre, che ancora non sappiamo  o non vogliamo porci, gli antichi volevano dare voce, per lasciare un messaggio che noi, ancora oggi, non sappiamo decifrare, un messaggio carico di energie che noi non possiamo comprendere, troppo presi dalla modernità, troppo distratti…per alzare, di tanto in tanto, gli occhi al cielo stellato.

                                                                  Gianluca Magliulo

venerdì 8 luglio 2011

Un uomo che legge è libero da condizionamenti e non c'è slogan di partito che tenga di fronte alla sua capacità di analizzare la realtà,non ce forza di pubblicità che condizioni il suo modo di essere e di vivere.

mercoledì 6 luglio 2011

Analisi critica del giornalismo italiano



Nel breve arco di tempo di un ventennio i mezzi di informazione,  e quindi la possibilità di comunicare, seguendo il progresso scientifico e tecnologico, si sono evoluti in mezzi con cui l’ utente interagisce e hanno cambiato le abitudini quotidiane di un numero sempre maggiore di persone.
Questo progresso così repentino ha prodotto un necessario  “svecchiamento” dei contenuti e del linguaggio  nei mass media, ma allo stesso tempo ha avviato un processo di degenerazione che fino ad ora si è dimostrato inarrestabile: i media italiani tendono all’ esagerazione, alla retorica e l’ informazione perde la sua funzione originale di pura descrizione della realtà.
La televisione ( e quindi la carta stampata, che ne viene fortemente influenzata) è l’ esempio lampante di come il concetto di “informare” sia radicalmente cambiato : i notiziari si fondono ai programmi di varietà o viceversa e la continua spettacolarizzazione delle notizie pone lo spettatore di fronte a continue “puntate” della stessa storia in quanto la priorità non è più quella di informare bensì quella di intrattenere il pubblico. In un simile contesto diventa sempre più indispensabile la figura dell’ opinionista, un professionista dell’ intrattenimento che, molto spesso, non ha nessun   titolo o qualifica per esporre un’ analisi razionale in merito all’ argomento affrontato, che non offre mai dati certi ma esprime solo la propria opinione, influenzando quella del pubblico, creando un’ identificazione fittizia con lo spettatore e  proponendosi come  "voce della comunità" .
Atteggiamento  ancor più grave da parte dei media è, secondo me, l’ enfatizzazione estrema dello stato emotivo predominante; basti pensare a come i fatti di cronaca nera vengono affrontati: non è  la ricerca della verità che interessa ma cogliere gli stati d’ animo, recuperare le confessioni  intime, ricercare i particolari  scabrosi.
Questa “drammatizzazione della notizia” fa crollare definitivamente quel muro immaginario posto tra l’ informatore e l’ informato ,che si sente tirato dentro, coinvolto e quindi pronto a seguire tutte le “puntate” della notizia canale, per canale.
Il conduttore/giornalista non prende le distanze dal “fatto” che riporta, quindi lo spettatore (o il lettore di giornale), non si trova di fronte alla notizia “nuda e cruda” da verificare, approfondire e poi elaborare secondo la propria sensibilità, esperienza, cultura. Egli è, piuttosto, una mente passiva che assorbe la notizia già filtrata ed elaborata da altri.
La mia conclusione è che l’ informazione italiana è  di qualunquista, povera di contenuti veri e alla deriva. Per i media del nostro Paese il mondo è come dovrebbe essere, un mondo perfetto dove un narratore qualunquista presuppone uno spettatore qualunquista : l'atteggiamento prescritto è quello di non avere nessun atteggiamento e nessun giudizio. Un’ idea ormai così pervasiva da non essere più nemmeno percepita come anomala dalla maggioranza degli italiani, per i quali il telegiornale è l'unica fonte di "informazione" . Sicuramente,  per trovare una soluzione, occorre riformare la scuola e la stessa tv , che produce appunto ciò a cui stiamo assistendo ai giorni nostri. Ed io credo che sia necessario intervenire al più presto possibile, prima che sia troppo tardi, prima che la “deriva”  ci disperda in alto mare per sempre. 

Il verismo


Il verismo è un movimento letterario nato in Italia intorno alla metà dell’ 800; esso è influenzato dal naturalismo francese ed è legato indissolubilmente alla diffusione del positivismo in Italia, per cui intende rappresentare la realtà quale appare all’ obiettivo della macchina fotografica e non alla lente deformante dello scrittore.
Il verismo, a differenza del movimento francese, non ha nessuna pretesa di denuncia sociale e si allontana soprattutto dalle istanze di impegno politico avanzate in Francia dai naturalisti, Zola in particolare.
Tema centrale della  letteratura verista  è, la realtà, analizzata alla luce della legge “scientifica”, neutrale e senza sentimento: le vicende dell’ uomo non sono altro che il prologo di un’ inesorabile caduta verso l’ annientamento, la caduta di ogni vincitore nella categoria degli sconfitti.
“I Vinti” furono il titolo del ciclo dei romanzi del Verga, tra cui “ I Malavoglia” e “Mastro don Gesualdo”.
Lo stile letterario rispecchia questa visione della realtà: esso è scarno, essenziale ed abbandona ogni ricerca di eleganza, teso a descrivere impersonalmente la realtà, scegliendo tra i vari registri espressivi il più consono all’ ambiente sociale rappresentato.
Il metodo verista viene elaborato nel modo più coerente e con i più alti risultati da alcuni scrittori siciliani, particolarmente sensibili alla contraddizione tra la nuova realtà dello Stato unitario e la prepotente realtà siciliana. I più grandi tra questi, Luigi Capuana e Giovanni Verga, ci offrono le descrizioni più vive, più concrete, più attuali della società in cui vivono.

Il Cantico delle Creature


Il Cantico delle Creature di Francesco d’ Assisi è, tradizionalmente, il più noto componimento di carattere religioso della nostra letteratura.
E’ una preghiera di lode al Signore: il Santo lodando le Sue creature ne celebra grandezza e potenza come creatore dell’universo.
E’, inoltre, un ringraziamento all’infinita bontà dell’Onnipotente: tutte le creature, animate e no, sono legate tra loro e con l’uomo da un profondo e da armonioso vincolo di fratellanza. Quest’idea, fulcro del francescanesimo, rivoluziona il pensiero di un intera civiltà: pone, infatti, l’uomo al centro dell’intero creato, poiché lo stesso Dio ha fatto sì che la nature fosse al servizio della sua creazione migliore. La sofferenza e la morte stessa sono indicate come mezzi attraverso i quali l’essere umano può incamminarsi sulla via della beatitudine, un sentiero lastricato di colpe e di riscatto, di perdizione e salvezza eterna.
Tale concezione, che antepone la centralità dell’Uomo, scavalca i limiti del medioevo e anticipa l’essenza dell’umanesimo che verrà, il movimento che pur senza rinnegare il sentimento religioso, abbandona o tende ad abbandonare l’indagine metafisica, per spostare il proprio interesse sull’umana esperienza.
Il Cantico è scritto in volgare umbro del XIII secolo: è proprio l’uso della lingua popolare quotidiana, nonché l’evidente ispirazione ai Salmi biblici (con la ripetizione del “ Laudato Sii ” ) a denotare la volontà dell’autore di far giungere, indistintamente a tutti, e non solo ai colti, il suo invito a lodare ringraziare Dio.
Il Cantico, però, nonostante sia scritto in volgare, presenta parti linguisticamente molto complesse ed una raffinata elaborazione stilistica in cui si coglie tutta la ricchezza socio – culturale dell’autore. Proprio il passo più solenne del testo, quello per “ sora Morte “, strumento di purificazione che accomuna tutti gli uomini, rivela la solidità culturale di Francesco d’Assisi: egli trascende i limiti del suo tempo e lascia un’ impronta indelebile nella storia della civiltà sia per la sua complessa personalità, sia per l’importanza universale della sua opera, sia per la novità linguistico – espressiva adoperata.
Ha dato vita ad un componimento ricco di schietta poesia, ad un fondamentale documento di volgare letterario: si può affermare, quindi, che questo Cantico di amore e di ammonizione, di evocazione sensoriale delle creature e di esplorazione delle vie eterne dell’anima, segna, come una pietra miliare, la nascita della nostra letteratura in volgare.  

                                                                       

martedì 5 luglio 2011

Analisi della fiction e della telenovela



La televisione, sin dalle sue origini, seguendo le orme del cinema, da cui deriva, ha prodotto un macrogenere del programma televisivo contraddistinto da opere di narrazione e finzione scenica con finalità  l’ intrattenimento: la fiction.
Questa ha le sue radici nel teleromanzo che, spesso, consisteva nell’ adattamento per la televisione di un’ opera classica della letteratura (I promessi sposi, La freccia nera, L’ Amleto, I miserabili…) ma anche in opere originali, create appositamente per il teleschermo.
Negli anni ottanta lil teleromanzo, oramai in declino, fu sostituito dal formato della fiction, un prodotto in grado di racchiudere in sé tutti i format della narrazione televisiva.
In Italia il termine è spesso usato per indicare la seria televisiva di produzione nostrana che prevede episodi della durata di sessanta minuti circa e la presenza di una trama verticale (narrazione episodica) e di una trama orizzontale (narrazione seriale).
La nostra fiction è strutturata, di solito, in stagioni che vanno dai 15 ai 60 episodi, anche se non meno successo hanno avuto  formati composti da un numero molto più limitato di puntate, in cui vi è la completa assenza della trama verticale, ma vi è unità narrativa dalla prima all’ ultima puntata.
Il serial debole (quello appena descritto) è contrapposto al serial forte che, a seconda che abbia o no una chiusura narrativa, viene distinto in telenovela o soap opera. In ambedue i casi la durata del racconto è lunga, spesso lunghissima:la fine della puntata, dunque, non è anche la fine della narrazione.
Lo scopo principale è,ovviamente, quello di tenere desta l’ attenzione dei telespettatori con colpi di scena, capovolgimenti, imprevisti, indizi premonitori e soprattutto attraverso l’ uso dell’ effetto cliff-hanger, l’ interruzione sistematica nel punto culminante della puntata, quando l’ attenzione dei telespettatori diventa spasmodica.
Mentre la soap opera, però, può avere anche una durata decennale, la telenovela, che ha un budget, molto più limitato, ha un numero di puntate che di solito si aggira, in media, tra le 120 e le 200 puntate.
La telenovela, nata in Brasile, come adattamento per la televisione della narrativa seriale dell’ ‘800, è basata su amori contrastati, fughe, tradimenti, agguati, figli illegittimi, faide familiari e figure femminili di grande spessore.
La psicologia dei protagonisti si innesta in una visione dell’ Universo manichei sta, dove la distinzione tra buoni e cattivi è netta e l’ eroe (più spesso l’ eroina) è sempre redentore o martire, convivendo con la sofferenza e gli ostacoli che la vita gli pone davanti continuamente, in attesa di un lieto fine che obbligatoriamente vedrà la distribuzione di premi ai buoni, suoi alleati, e di condanne ai cattivi, suoi avversari.
Per i Paesi produttori (Brasile, Messico, Argentina e Venezuela su tutti) la telenovela è una grande risorsa di esportazione, diventando un fenomeno commerciale, mediatico e di costume di livello planetario.
Essa riveste un importante ruolo sociologico: il lieto fine ha un effetto consolatorio che compensa, in qualche modo, le disperazioni dei telespettatori nella vita reale, e trasmette loro positività nell’ esistente.
Nelle produzioni del Terzo Millennio, quest’ effetto placebo si è alquanto affievolito: la storia della ragazza di umili origini che si innamora di un uomo di elevato livello sociale è, spesso, affiancata da argomenti di attualità che rendono la storia più realistica e coinvolgente per il telespettatore.
Se la narrazione, prima, era vista come una storiella per casalinghe ignoranti, oggi, invece, le telenovelas presentano una maggiore qualità sia nei dialoghi (prima popolari, approssimativi, poveri e banali) sia negli studi delle ambientazioni, molto più realistiche rispetto al passato, anche grazie a budget molto più importanti dei precedenti.
Come detto prima il mercato delle telenovelas è in declino, soprattutto a causa dell’ avvento dei reality-show; tuttavia l’ importanza sociale delle telenovelas è ancora viva  nel mondo, in milioni e milioni di telespettatori.